il significato della parola "etnomusicologia"

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CarloTrono
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il significato della parola "etnomusicologia"

Messaggio da CarloTrono »

Rileggendo i comunicati stampa che sono stati inviati alla redazione di pizzicata.it per essere pubblicati, sia recentemente che in passato, mi è saltato all'occhio il frequente richiamo all' "etnomusicologia", con l'utilizzo di tutte le parole da essa derivate: "etnomusicologo", "ricerca etnomusicologica" ecc.

A questo punto mi sorge spontaneo chiedermi se l'utilizzo di questo termine sia corretto...

Dal vocabolario della lingua italiana Zingarelli Ed. 2009
etnomusicologìa: comp. di etno- e musicologia, sostantivo femminile, parte della musicologia che studia le musiche popolari dei vari Paesi.
e ancora, sempre dallo Zingarelli 2009
ètno- : in parle composte dotte, significa "popolo", "razza".
etnografìa: s.f., disciplina che studia, con intendimenti descrittivi, i costumi e le tradizioni dei popoli della Terra.
musicologia: insieme delle discipline che hanno per oggetto il fenomeno musicale in ogni suo aspetto.
Quando ho avuto il piacere di conoscere il professor Eugenio Imbriani (antropologo, docente presso l'Università di Lecce) mi è venuto spontaneo chiedergli quale qualifica fosse necessaria per potersi definire un "etnomusicologo". Il professor Imbriani mi ha palesato due possibilità: o un antropologo con conoscenze di musicologia (ovvero che sa leggere e scrivere la musica), oppure un musicologo che ha approfondito gli aspetti dell'antropologia.

Un'altra i "The new Grove dictionary of music and musicians" (edited by Stanley Sadie, Macmillan, London 1995), dove alla voce "Ethnomusicology" troviamo:
Oggetto dell’etnomusicologia è la musica viva (oltre agli strumenti musicali e alla danza) di tradizione orale, che non appartenga alla musica colta urbana europea. I principali oggetti di studio sono: la musica dei popoli privi di scrittura (o musica tribale); la musica tramandata oralmente nelle grandi culture dell’Asia (musica di corte, delle alte gerarchie religiose e di altri strati superiori della società) in Cina, Giappone, Corea, Indonesia, India, Iran e nei paesi di lingua araba, e la musica popolare, che Nettl (1964, p.7) ha proposto di definire come la musica di tradizione orale sviluppatasi in aree dove esiste una cultura “alta”. In altre parole, la musica tradizionale non esiste soltanto in Europa e in America, ma esiste anche accanto (o all’interno) delle musiche delle culture dominanti dell’Asia. (2) Queste tre categorie sono le principali aree d’interesse dell’etnomusicologo, ma non sono le uniche. Mutamenti o influenze culturali, ad esempio, costituiscono un campo d’interesse attraverso il quale intraprendere uno studio della musica tradizionale o commerciale in tutte le parti del mondo.

Oggi l’etnomusicologia è riconosciuta come disciplina accademica in USA e in Canada, in Francia, e, in minor misura, in Germania, Olanda, Gran Bretagna e altrove. Gli specialisti di questa disciplina provengono da studi musicologici o antropologici, eccezionalmente da entrambi i campi.
interessante è anche la nota a piè di pagina richiamata a questo punto
Le due facce dell’etnomusicologia derivano fondamentalmente dai due modi che abbiamo a disposizione per pensare la musica: il primo consiste nel pensarla come qualcosa di “speciale” che va indagato al suo “interno” per capire come funziona (ed eventualmente cosa significa), il secondo modo è un approccio “esterno” più interessato ai condizionamenti cui la musica è soggetta e alle sue analogie con altri fenomeni che non al fatto musicale in sé. Questo secondo modo di pensare la musica, a sua volta, può assumere due aspetti: ciò che è “esterno” può essere l’insieme della cultura nella quale la musica stessa si manifesta, oppure può essere il processo storico che ha portato a quella tale cultura e dunque a quella particolare musica. All’inizio del suo libro più famoso l’etnomusicologo Shima Arom simbolizza la dialettica fra la sostanza “interna” della musica e gli aspetti “esterni” ad essa collegati in una figura di cerchi concentrici. Nel cerchio centrale si trova la materia musicale, nel secondo cerchio vi sono i mezzi materiali di cui si serve (strumenti, voci) e quelli concettuali (la lingua, il dialetto, le espressioni idiomatiche particolari); nel terzo cerchio Arom colloca le circostanze in cui un popolo fa musica (cerimonie, riti, danze, lavoro ecc..); in un quarto cerchio egli mostra il panorama simbolico generale del gruppo sociale preso in considerazione: la religione, i miti, la storia tramandata e accettata. La centralità della materia musicale significa che vi è un legame molto stretto fra la musica e “l’altro da sé”, ma significa anche che può essere preso in considerazione uno studio della musica “in sé”, da un punto di vista solo musicologico, senza preoccuparsi di capire se vi siano legami (ed eventualmente di quale tipo) fra la musica e il mondo.
Evidentemente la scelta fra i due possibili approcci, o l’elezione di una delle numerosissime possibilità intermedie, non dipende soltanto da un modo generale di vedere il mondo, da una filosofia della vita o da un semplice punto di vista: per mettere in atto l’una o l’altra direzione di ricerca occorre una preparazione particolare, e quella musicologica è certamente la più “tecnica” e la meno disposta all’improvvisazione.
In realtà più che fare una scelta unidirezionale fra le due opzioni, è opportuno prepararsi e acquisire gli strumenti necessari per procedere a zig-zag, ossia per riuscire a spostarsi con la dovuta abilità da un campo all’altro in modo da riuscire a fare emergere i legami fra il musicale e il culturale, quei legami di cui nessuno può negare l’esistenza, ma che – altrettanto innegabilmente – non sono biunivoci e quindi vanno continuamente verificati e messi a punto nelle diverse fasi della ricerca.
(traduzione tratta da http://www.lett.unitn.it/musica/html/It ... onda/2.htm)

Devo riprendere fiato...e per farlo ritorno al dialogo con il professor Imbriani. Una condizione fondamentale per definirsi "etnomusicologo", secondo Imbriani, è quella di conoscere il linguaggio della "musicologia", ovvero la "musica", quindi è necessario saper leggere e scrivere la musica correttamente. Qui casca l'asino...
...infatti mi chiedo quanti fra i autoproclamati "etnomusicologi" sappiano effettivamente scrivere un rigo di musica...me ne viene giusto in mente uno che secondo me non sa nemmeno solfeggiare ! Va be...

Aspetto contributi per definire meglio...
pisa l'oru, pisa lu chiummu, pisa cchiu l'onore de tuttu lu munnu !
giannino
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Re: il significato della parola "etnomusicologia"

Messaggio da giannino »

Questa discussione mi spinge innanzitutto ad una riflessione, sottoforma di domanda: perché l’unico modo (o il più diffuso) di approcciarsi alla musica di tradizione dei nostri nonni deve essere quello della registrazione, della raccolta, della pseudo etno-musicologia (da quattro soldi?). Non basterebbe, a volte, la semplice “condivisione” di un repertorio e delle sue modalità di diffusione e riproduzione? L’importantissima cultura orale cessa, ricordiamolo, proprio quando essa perde il sostegno della memoria per affidarsi ad un tipo di supporto rigido.
Il termine etnomusicologia innanzitutto è un termine prettamente universitario, coniato all’interno dell’ambito accademico tedesco per sostituire il termine più vago di “musicologia comparata”. Quindi ad un primo occhio la qualifica di etnomusicologo non può prescindere da una laurea in musicologia. E già il 90% dei sedicenti etnomusicologi italiani perderebbero di colpo la loro qualifica.
Inoltre, l’aggiunta del prefisso “etno” davanti a “musicologia” presuppone qualcosa che è di più, più specifico. Quindi, in fin dei conti, designerebbe un esperto in musicologia che abbia anche una specializzazione in etnologia, o antropologia ecc. ecc.
Dal punto di vista più pratico, notiamo come solo per essere ammessi alla facoltà di musicologia della Sorbona di Parigi, sia necessario essere in possesso di una seria formazione in solfeggio, analisi, educazione all’orecchio armonico, storia generale della musica, pratica strumentale e vocale, il tutto corrispondente ad un livello di 4 anno di conservatorio. Dopo la “licenza” in musicologia, è possibile frequentare masters e specializzazioni in etnomusicologia. Ma questo è un altro discorso, dato che in Francia, secondo la mia esperienza personale, almeno l’80% dei giovani ha frequentato qualche anno di conservatorio, anche solo per passatempo.
Il discorso che mi preme, e riprendo quello che ho lasciato all’inizio, è: possiamo appropriarci o ri-appropriarci della nostra musica senza fingerci ricercatori solo perché abbiamo un registratore in tasca? Possiamo ammettere che imparare a memoria un brano tradizionale ascoltandolo 300.000 volte nell’ iPod non ci renderà mai padroni di una cultura o di una tecnica? Possiamo realmente vivere la nostra musica senza dover per forza “imitare” perfino la voce arsa ed usurata degli anziani? Possiamo fare musica “vecchia” senza doverci sentire “vecchi”? Possiamo ammettere che conoscere e saper interpretare perfettamente 50 modi e stili diversi tradizionali di aree specifiche del sud Italia, lontane o vicine dal nostro luogo d’origine, non ci renderà mai “cantori tradizionali”? Possiamo avere il coraggio di dare un nostro parere in ambito etnico, musicale, antropologico, filosofico, senza doverci sentire o fingere per forza degli esperti nell’ambito (è quello che sto cercando di fare adesso)? Possiamo ammettere che non potremo mai più riappropriarci di contesti, abitudini, stili, modi di vivere e di comunicare che non ci appartengono più, per tante e tante ragioni? Potremo mai tornare a divertirci in modo genuino e popolare senza dover a tutti i costi inscenare l’ “homo traditionalis”?
Giovanni Semeraro
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Luca/
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Iscritto il: 6 aprile 2006, 22:40

Re: il significato della parola "etnomusicologia"

Messaggio da Luca/ »

L'ultima delle domade che poni è interessante,non che le altre non lo siano,ma quella mi ha fatto riflettere.
"Potremo mai tornare a divertirci in modo genuino e popolare senza dover a tutti i costi inscenare l’ “homo traditionalis”?"
Ci sono due razze di suonatori tradizionali,parlando dei "giovani" e non degli "anziani",una la potremmo definire dei "suonatori inconsapevoli" l'altra dei "suonatori consapevoli".
Il suonatore inconsapevole è uno che vive fuori dal mondo della comunicazione globale,usa il computer si,ma non farebbe mai una ricerca inerente alla musica popolare,difficilmente raggiungerebbe questo sito,anche perchè non ha alcun interesse per la musica di tradizione,ascolta tutt'altro,tutto quello che il gusto musicale dei "palati fini" abborrisce poichè lo considera "spazzatura musicale".Una volta all'anno o poco più esegue una "suonata" o un canto tradizionale poichè l'ha imparata/o per imitazione nell'ambiente sociale da cui proviene,e spesso non lo considera nemmeno musica,non nella nostra accezione. E' una categoria rara ma presente, è generalemente formata da coloro che provengono dagli strati più deboli della società,sono quelli che si vedono in alcuni filmati "autentici", filmati che non vedranno mai, o di cui comunque non capiranno il valore,ed il ritorno,che avrà invece per chi li ha girati.
Il suonatore consapevole è invece quello che ha fiutato l'enorme interesse che nutrono alcuni per la musica di tradizione così mette su un gruppo di altri suonatori che comincia a portare in giro,spesso non per interessi economici,ma per orgoglio,lo stesso orgoglio che è presente spesso in un suonatore riconosciuto "valido" nella comunità di origine,che poi si trasforma nell'orgoglio di portare in giro la propria tradizione musicale. La seconda categoria è quella di cui contiamo più elementi,è la categoria di coloro che vivono una tradizione musicale traghettandola nel presente e, si spera, nel futuro.
Adesso mi chiedo se per studiare i primi,che prima o poi o smetteranno di suonare oppure entreranno nella schiera,tra l'altro non certo folta,dei secondi ,oramai non serva l'archeologo più che l'etnomusicologo,poichè ora come ora i "giovani" che eseguono musica di tradizione,la vivono come tale,come musica tra musiche,e non come un linguaggio unico e caratterizzante di una comunità isolata,e l'hanno assimilata tenendo conto di un background di "esperienze" musicali di cui gli "anziani" non erano in possesso,per questi ultimi la musica era spesso soltanto quella del posto in cui nascevavano,vivevano e morivano. Siamo noi ad avere una musica "popolare" e già l'averne coscienza pregiudicherebbe notevolmente i risultati di una ricerca che vorrebbe prendere in esame la manifestazione musicale "genuina" del nostro popolo,anche se condotta su esecutori "tradizionali".E' un pò come quando si effettua un test psicologico,sapendo di trovarsi sotto esame i soggetti tendono a dare un'immagine il più positiva possibile,tale immagine positiva è determinata dai valori del popolo da cui è estratto il campione.
Dunque un popolo culturalemente "autoreferente"(e con popolo ci si può riferire anche a poche centinaia di persone residenti in un dato luogo) ci presenterà la miglior musica secondo l'accezione di "migliore" presente in quella cultura,ma oggi come oggi quel "migliore" sarebbe da rapportare ai gusti musicali dell'intera società occidentale.
Ed un anziano eremita può essere un soggetto interessante per una ricerca,ma di certo non è un campione valido per parlare di musica etnica.
Forse oltre a chiederci cos' è l'etnomusicologia dovremmo porci il problema di comprendere cosa è musicalmente etnico oggigiorno in Italia.
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